Il vino degli egizi

Tutankhamun era solito bere vino perché questa era la bevanda principale della classe nobile nell'antico Egitto. Come avviene anche oggi, il vino era considerato superiore alla birra e costava infatti cinque di volte di più. Aveva una sua divinità, la dea Hathor, come dimostrano le liste delle offerte nei templi e nelle tombe.

Il vino nelle anfore di Tutankhamon

Fin dalla terza dinastia (2700 anni avanti Cristo), le tombe sono ricche di rilievi e pitture che raffigurano le diverse fasi della produzione del vino nei minimi dettagli: la raccolta nei vigneti dei Delta e delle Oasi, lo stivaggio dell'uva nei grandi tini di pietra, legno o argilla, la pigiatura con i piedi, ancor oggi il modo migliore per produrre vino più puro dato che i semi e i graspi non vengono mescolati con il succo d'uva. Le anfore venivano tappate meticolosamente: nella prima fase della fermentazione si copriva il loro collo con dei fango, lasciando un piccolo foro per la fuoriuscita dei gas; si procedeva con l'immagazzinamento, lungo alcuni mesi, per la seconda fase della fermentazione.

Le anfore avevano la base rastremata per raccogliere la posa. L'ultima fase della lavorazione era la chiusura ermetica dell'anfora, che riportava in cima i dati relativi al contenuto, l'anno di produzione, la zona di provenienza, il nome del vinaio, né più né meno come accade oggi con i vini di pregio. In base a tali dati venivano stabiliti la qualità del prodotto e il suo prezzo. Nel corredo funerario della tomba di Tutankhamun, morto nel 1323 a.C., sono state rinvenute una trentina di anfore. 26 di esse risalgono agli anni 4, 5, 9 del regno del faraone e ciò conferma che egli regnò circa 9 anni. Poiché le anfore non erano smaltate, all'interno, nei secoli il vino è evaporato e tutto ciò che oggi resta sono dei depositi appiccicosi sul fondo. Che però sono bastati per risalire alla composizione del vino. Ad averla decifrata a livello molecolare sono stati i ricercatori dell'Università di Barcellona.

Le analisi, spettrografia di massa e cromatografia in fase liquida, hanno individuato la presenza di acido tartarico (l'impronta chimica del vino in sé) ma soprattutto l'acido siringico, in cui si decompone la sostanza che dà il colore rosso al vino, la malvidina-3-glucoside. II metodo ha fatto identificare anche la provenienza dell'uva, che coincide con quanto scritto sull'«etichetta»: un vino rosso e dei migliori vigneti egiziani.

Fonte: Newton - Articolo di Ahmed Faraman del Dipartimento di Archeologia dell'università di Alessandrio d'Egitto

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