Intervista a Tiziano Terzani

Tiziano Terzani è stato uno dei più grandi giornalisti internazionali. Personalmente, l'ho conosciuto come scrittore in tempi recenti, quando già era scomparso. Ho apprezzato moltissimo tutti i suoi libri e ho quindi pensato di raccogliere su questo sito un po' di materiale che lo riguarda sperando che altri possano apprezzare il genio, l'originalità e la linearità di pensiro di questa persona straordinaria.
Buona lettura.

Intervista a Tiziano Terzani

A cura di Maria Lucia De Luca e Marina Marrazzi - fonte: www.zam.it/

Come ha deciso di diventare giornalista?

Tiziano Terzani: Io sono il primo della mia schiatta che sa leggere e scrivere. Vengo da una famiglia poverissima, i miei primi pantaloni lunghi furono comprati a rate. Mio padre faceva il tagliapietre ma era una persona saggia, coltissima, citava Dante, sapeva il Rigoletto a memoria.
Così ho cominciato a fare il giornalista a sedici anni per guadagnare un po’ di soldi: la domenica, quando i miei amici andavano alle feste da ballo con le ragazzine, correvo con la vespa a seguire le corse ciclistiche o le partite di calcio. Ma al giornalismo vero e proprio sono arrivato che avevo già trent’anni, perché nel frattempo mi ero laureato in Legge e mi ero sposato molto giovane con la mia splendida moglie. Per mantenere la famiglia andai a lavorare all’Olivetti, dove per cinque anni ho fatto l’operaio e ho venduto macchine da scrivere. Poi finalmente, quando avevo 27-28 anni, mi offrirono una borsa di studio che mi permise di andare alla Columbia University a studiare il cinese, con il quale avrei potuto finalmente realizzare il mio sogno: conoscere l’Oriente.
Dopo la laurea tornai in Italia e andai a lavorare al quotidiano Il Giorno, dove feci il praticantato e l’esame da giornalista professionista. Appena avuto il tesserino in tasca chiesi al mio direttore di andare a fare il corrispondente in Asia: era il 1971. Mi rispose di no. Incontrai i direttori dei principali quotidiani, ma nessuno poteva soddisfare la mia richiesta. Allora diedi le dimissioni, e con il denaro della liquidazione di un anno e mezzo di lavoro cominciai a girare per l’Europa con mia moglie e due figli piccoli.
Ho avuto fortuna. Parlavo francese, inglese e tedesco… Ad Amburgo mi presentai al settimanale Der Spiegel dove mi offrirono il primo vero contratto di inviato. Mi garantivano soltanto un piccolo fisso, ma andare in giro per il mondo, cercare di capire cosa succede, era proprio quello che volevo fare da sempre.

Da lì è cominciata la sua avventura, la sua ricerca di capire gli altri?

Tiziano Terzani: La vita è una cosa molto strana e meravigliosa, quando la si vive non ci si rende bene conto di come stanno le cose: si è lì, in quel momento. È solo quando si invecchia che ci si guarda indietro e si vede che c’è un filo che collega tutto. Per me questo filo era la curiosità, la curiosità di capire l’altro. La spinta ad andare là dove c’era qualcosa che non era mio, per capire, per rendermi conto.
Tra noi e l’altro c’è una distanza naturale, noi riteniamo altro lui e lui ritiene altri noi. Nelle guerre questo è ancora più evidente, perché le guerre, è ovvio, nascono quando gli uni non capiscono le ragioni degli altri, e gli uni dicono che il male è lì mentre gli altri dicono che il male è qui, e in nome di questo Dio io ammazzo te e in nome di un altro Dio tu ammazzi me. Bin Laden, Bush, ora Sharon…
Il mio istinto è stato sempre quello di capire chi fossero “gli altri”. Nel 1973 ero in Vietnam con gli americani, come tutti gli altri giornalisti. Stavamo al di qua del fronte e gli altri sparavano. Ma io non sentivo questi “altri” come nemici, a me non avevano fatto nulla. E allora passai le linee e trascorsi una settimana con i Vietcong.

Lei è stato tanti anni in Cina.

Tiziano Terzani: La Cina è stata la mia grande avventura. È una grande civiltà, per volerla capire bisogna avvicinarcisi quasi camuffandosi. In tutte le lingue asiatiche “altro” è una parola orribile. Identifica lo straniero, colui che è fuori, colui che viene da fuori e deve rimanere fuori. Se si è già incapsulati all’interno di una parola che rende stranieri, l’unico modo per avvicinarsi a una cultura è fare come il camaleonte, che prende il colore della foglia se è sulla foglia e il colore della sabbia se è sulla sabbia: diventare sempre di più come l’altro. Io in Cina parlavo cinese, mangiavo cinese, vestivo cinese, mandavo i miei figli alla scuola cinese, viaggiavo insieme alla famiglia con le biciclettine dei cinesi. E nonostante tutto ciò a un certo punto i cinesi mi hanno chiesto: «Ma tu chi sei? Un italiano che lavora per i tedeschi, che parla cinese imparato in America, sei forse della CIA o del KGB?». Dopo l’interrogatorio e un mese agli arresti, arrivò l’espulsione.

E il Giappone?

Tiziano Terzani: Devo dire che il Giappone per me è stato difficile, non ci sono entrato davvero dentro, non sono riuscito a imparare bene la lingua, forse ero troppo vecchio. Poi avevo un handicap: venivo dalla Cina. Chi viene dalla Cina ha difficoltà a capire il Giappone e viceversa, perché si tratta di due realtà simili, ma per niente uguali. Forse è a causa dei caratteri della scrittura: sono gli stessi ma vengono pronunciati in modo diverso.
Un’altra grande differenza: il Giappone è la civiltà del dettaglio mentre la Cina non ha dettagli, è la civiltà della grandeur, non c’è mai l’attenzione per le piccole cose. Sono due prospettive molto difficili da conciliare. E poi c’è da dire che io venivo da un’esperienza drammatica, quella di essere stato espulso dalla Cina.
In Giappone ho passato cinque anni belli, ma alla fine credo di poter dire che io e questo paese non ci siamo davvero intesi. In verità, credo che in questa vita non riuscirò a cambiare le cose, ma se avrò un’altra vita come essere umano – a me piacerebbe essere rugiada nella prossima – vorrei provare a fare i conti con il Giappone.

Può raccontarci la sua esperienza indiana?

Tiziano Terzani: I primi cinque anni in India li ho passati da giornalista, dietro ai ministri, agli ambasciatori, alle cene, tra i viaggi, la guerra in Kashmir, il conflitto con il Pakistan. Ma poi mi sono accorto che non sapevo nulla di questo paese.
Ero andato lì perché cercavo la dimensione del divino, ormai assente nel mondo occidentale e nella Cina maoista. In India invece ogni gesto ha ancora a che fare con un altro mondo: il salutarsi, o quando le donne prendono una manciata d’acqua e la porgono al sole la mattina… Com’era da noi cinquant’anni fa, ricordo che mia madre si segnava prima di mangiare. Questo mi affascinava. E poi, l’India mi piaceva perché mi pareva l’ultima civiltà asiatica in cui c’era ancora una forza interiore che poteva essere di freno al materialismo occidentale.
Però dopo cinque anni mi resi conto che di tutta questa roba non avevo visto niente, mi tenevano sempre lì a parlare di guerre, di morti in Kashmir, di programmi di sviluppo, di apertura del mercato delle telecomunicazioni, tutte cose da giornalisti…
Mi mancavano tre anni per andare in pensione. Dissi al mio giornale che non volevo più lavorare, non volevo più fare il corrispondente, correre dietro a tutti i massacri, le alluvioni, i colpi di stato… Così mi hanno fatto un contratto da scrittore “speciale”, talmente speciale che non avevo bisogno di scrivere. Allora ho preso "i voti", sono entrato in un ashram induista, mi sono messo a studiare il sanscrito, la mattina alle cinque andavo a pulire le statue con lo yogurt e la polvere di sandalo. Sono entrato in quella realtà. Mi rendo conto che per tutta la vita non ho fatto altro che questo, per tutta la vita una sola cosa mi ha davvero incuriosito: capire gli altri. Ma per capirli bisogna avvicinarli, vivere nel loro mondo.

Come ha conciliato il desiderio di stare dentro le cose con quello di raccontare, di essere testimone…

Tiziano Terzani: Io ho avuto molto dalla vita, sono un uomo fortunatissimo. Innanzitutto a diciassette anni ho incontrato mia moglie, e ciò ha determinato tutta la mia esistenza. E poi la vita mi piace, mi diverte, mi affascina, e per istinto la devo raccontare. Non c’è gioia che io provi da solo, perché ho imparato molto presto a spartirla con mia moglie, e poi anche con gli altri. Ma non solo quando una cosa è bella provo il desiderio di condividerla, anche quando mi trovo di fronte un’esperienza orribile, se mi pare di aver capito qualcosa attraverso di essa, mi viene voglia di parlarne agli altri.
Come giornalista, poi, ho quasi sempre scritto in una lingua che non era la mia. Questo ha fatto sì che mi dovessi liberare scrivendo libri nella mia lingua. E mi è andata bene. Se mi guardo indietro mi dico: «Che fortuna!».

Questa sua curiosità istintiva può essere la chiave del rispetto per l’altro…

Tiziano Terzani: Credo di sì. L’altro giorno è venuto da me un signore per chiedere una dedica sul mio libro. Mi è venuto da scrivere: «Al signor tal dei tali perché mi aiuti a rendere i turisti dei pellegrini».
Mi spiego: la curiosità che viene dall’interno – non quella di prendere qualcosa da portarsi a casa, il ricordino, la fotografia – parte proprio dal rispetto. Mentre invece l’industria del turismo, una delle più orribili del mondo, sollecita solo una curiosità consumistica. Come si potrebbe recuperarla? Trasformando i tour in pellegrinaggi.
In realtà il turismo è nato proprio così. In un paese come il Giappone, per esempio, si andava al monte Fuji come pellegrini, non come turisti. Quando io sono stato in Giappone mi sono rapato, ho preso il bastone e ho scalato quella montagna con l’idea del pellegrino che vuole raggiungere la cima, che sta camminando su Dio, e allora non lascia cartacce. Se si potesse riportare nel turismo questo atteggiamento, il rispetto, il senso di devozione, si salverebbero i turisti, che saprebbero di più quello che fanno e la smetterebbero di continuare a consumare, e si salverebbe anche il consumabile.
Se ci si mette a studiare una cosa, come si può odiarla? L’odio dell’Occidente verso l’Islam risiede in gran parte nel fatto che nessuno se ne occupa più, nessuno più studia questa cultura. Provate a vedere quanti studenti all’università studiano l’arabo: pochissimi. È chiaro che così si aumenta la distanza. Ma se ci si mette a studiare, l’oggetto del proprio studio diventa anche l’oggetto del proprio amore. Il rispetto nasce dalla conoscenza, e la conoscenza richiede impegno, investimento, sforzo.

Come si può coniugare il rispetto, il riconoscimento di una cultura altra e la nostra idea occidentale di universalità dei diritti umani…

Tiziano Terzani: Questo è il vero grande problema. Innanzitutto bisogna intendersi sulle parole. Le parole di per sé sono una trappola. Per esempio, cosa significa felicità? Per Gengis Kan forse la felicità era ammazzare un migliaio di persone, chiamare il capo di quella tribù, prendergli la moglie, violentarla sotto i suoi occhi e poi tagliarle la testa. Ma per me quella non è felicità.
Quindi parlare di diritti umani, di universalità dei diritti umani, mi lascia qualche perplessità… Vorrei che i diritti fondamentali fossero sempre rispettati, ma onestamente mi chiedo: siamo tutti d’accordo sull’universalità di questi diritti?
Certo che c’è qualcosa che accomuna gli esseri umani, che dovrebbe essere il rispetto per tutti. Un occidentale ha forse meno paura della morte di un orientale? Forse la psiche è diversa tra un orientale e un occidentale? Non credo. Un orientale ama più o meno come un occidentale, ha la stessa paura di essere solo... Secondo me di cuore ce n’è uno solo, e il cuore è uguale per tutti, la voce del cuore sa quali sono i diritti umani, i diritti degli animali, il cuore parla allo stesso modo nel petto di tutti, musulmani, ottentotti, bantù, esquimesi, uomini, donne. Il problema è che questa voce del cuore non la sta più ad ascoltare nessuno, c’è tanto rumore, quella è una voce piccola, che bisbiglia, proprio un soffio a volte.

È da questo, a suo avviso, che dipendono le difficoltà sempre più gravi che il mondo si trova a fronteggiare?

Tiziano Terzani: L’umanità sta affrontando un periodo di spaventosa barbarie, le torri che crollano sono una barbarie, il modo con cui l’occidente reagisce – perché non sono solo bombe americane, sono bombe di tutti – è un’altra barbarie. E Guantanamo – la base americana sull’isola di Cuba dove vengono portati i prigionieri afgani – non è una barbarie? Forse potevano risparmiarsi la foto del marine che tiene l’arabo legato come un cane con la camicia di forza. Quella foto non l’ha mica rubata un paparazzo, l’ha fatta un fotografo ufficiale del Dipartimento della difesa ed è stata diffusa nel mondo perché volevano farla vedere, volevano soddisfare la fame e la sete di vendetta dell’opinione pubblica americana.
Quello che mi stupisce è come mai un paese che per tanti anni ha fatto giustamente la lotta per la difesa dei diritti umani nei confronti del mondo comunista, nei confronti di tante dittature africane, d’un tratto fa distinzione tra cittadini americani e cittadini non americani.
Ci sono voluti centocinquanta anni per mettere a punto la Convenzione di Ginevra, per dare una vernice di umanità alla convivenza umana, e ora viene tutto messo da parte in nome dell’interesse nazionale americano, della lotta al terrorismo. Di nuovo l’ambiguità delle parole: ma chi è il terrorista? Certo, ci vogliono le istituzioni, ci vorrebbero le leggi, ci vorrebbero le definizioni, ma a corto di tutto ciò bisogna fermarsi, rallentare, bisogna sedersi, chi sa pregare preghi, chi non sa pregare faccia qualcos’altro. E allora prendiamo coscienza di esserci e cominciamo a ragionare, cosa vogliamo diventare, da dove veniamo, dove stiamo andando.
Voi, con le vostre preghiere, trovate una consolazione tutti i giorni… Permettetemi di dire che avete scoperto l’acqua calda, ma quest’acqua calda l’hanno dimenticata tutti. Com’è possibile che con tutte queste scienze delle comunicazioni, con tutti questi telefonini, abbiamo dimenticato le cose fondamentali?
Ma pensi ai suoi nonni, o ai miei bisnonni, la mattina si alzavano e pregavano, andavano nei campi, tornavano la sera e c’era il vespro, prima di andare a cena guardavano il pezzo di pane e dicevano grazie, c’era sempre un momento in cui si ringraziava, oggi siamo tutti distratti, tutti di corsa… A volte mi intristisce un po’ che questa grande vecchia civiltà europea, che aveva una sua storia e che potrebbe ritrovare anche all’interno di se stessa dei valori, deve avere dei giovani che viaggiano fino in Oriente e vanno a cercare la soluzione laggiù.
Credo che occorra cercare in se stessi le proprie radici, la propria ricchezza. Non è un caso che si stia diffondendo proprio il Buddismo, che non è una religione, è una civiltà, non ha comandamenti o dogmi. Einstein diceva che il Buddismo è l’unica religione che si confà alla mentalità scientifica. A Bodhigaya ho visto mongoli, tibetani, cinesi, srilankesi, europei, e ho avuto per la prima volta il senso di come il Buddismo sia una grande religione, una religione universale.

Tornando all’universalità dei diritti umani, come possiamo agire in loro favore senza calpestare l’identità delle altre culture? Come possiamo porci, ad esempio, nei confronti del burqa indossato dalle donne afgane?

Tiziano Terzani: Il punto è chiedersi: dobbiamo aiutare altri popoli, che ci sembrano oppressi, a volere quello che vogliamo noi? Bisogna per prima cosa rendersi conto che nel mondo ci sono oggi milioni e milioni di persone che non vogliono essere come noi.
Sono orgogliosissimo di essere italiano, di essere fiorentino, di essere europeo, ma dico, specie ai giovani: «Siate orgogliosi di essere chi siete, però non pretendete che la vostra cultura abbia il monopolio di tutto, il monopolio della dignità della donna, il monopolio della civiltà, il monopolio della felicità, del benessere, del progresso. Analizzate, confrontatevi, difendete la vostra in maniera giusta, non violentemente». Io trovo bello, meraviglioso essere diversi. Pensate alle donne giraffa del nord della Birmania, che portano quei lunghi collari. È una tortura terribile, ma cosa dovremmo dire loro: «Toglieteveli»? Non solo il loro collo è diventato così lungo che levando il collare soffocherebbero, ma soprattutto in questo modo sarebbero private della loro identità. Tutta la vita sognano questo… Alla lunga se non gli andrà più bene saranno loro a cambiare, le trasformazioni economiche e culturali porteranno a questo mutamento, ma l’idea che ci debba essere un gruppo di donne americane che gli tolgono i collari è una follia.
Riguardo al burqa è lo stesso. Sono d’accordo che è l’espressione di un aspetto maschilista dell’Islam, ma è anche una tradizione di centinaia di anni. Ci sono gruppi di coraggiose donne afgane che risolveranno il problema. Ma mi chiedo nuovamente: dobbiamo aiutarle a volere quello che vogliamo noi?
Si ritorna a quanto dicevamo all’inizio: il rispetto delle altre culture è una grande cosa, quello che va evitato è lo scontro tra civiltà, che porterà alla fine di tutto. Mai come ora l’umanità ha avuto in mano armi di distruzione di massa così potenti, e questo rappresenta un pericolo per tutti gli esseri umani, ma l’idea che gli americani vogliono andare a bombardare Saddam Hussein per togliergli queste armi è assurda, come se solamente loro avessero il diritto di possederle.
Ma allora perché non ricominciamo da zero, non eliminiamo le armi e smettiamo di produrle?

Dopo l’11 settembre si è detto da più parti che interpretare gli attuali conflitti come scontri tra civiltà è una posizione pericolosa e fuorviante. Secondo lei oggi, nei conflitti, pesano più gli aspetti ideologici o quelli economici?

Tiziano Terzani: Questa domanda mi permette di esprimere una mia posizione ben precisa. Per trent’anni ho fatto il giornalista, e mi sono sempre dovuto occupare di quello che si pensa domani, la prossima settimana o il prossimo mese. Non c’è dubbio che se fossi giornalista e dovessi analizzare la situazione di oggi direi che per la popolazione americana l’istinto di vendetta è comprensibile, perché si sono presi una botta spaventosa. Direi anche che dietro c’è il petrolio, c’è l’interesse delle aziende militari che vogliono rinnovare tutto l’armamento, la voglia di essere una superpotenza.
Ma oggi voglio fare un passo in avanti: le vere radici della violenza, cioè della guerra, secondo me non sono fuori di noi. La violenza ha le sue radici dentro, nelle nostre passioni, nei nostri desideri, nella nostra voluttà, nel nostro arraffare, nel nostro voler possedere più che volere essere. Di questo sono assolutamente convinto, e quindi arrivo a dire che le rivoluzioni esterne sono state dei disastri. Quelle di questo secolo le ho viste tutte, all’inizio o alla fine. Sulla fine della rivoluzione sovietica ci ho scritto un libro, Buonanotte signor Lenin. Che disastro, le montagne di morti, le montagne di lacrime, le tracce di orrore, di tristezza… E quella cinese? Quanti morti… E quella vietnamita? Perciò sono arrivato a questa conclusione, che è la mia ultima speranza: forse l’unica rivoluzione da fare è quella interiore, che non fa morti, non massacra, non lascia tristezza.
Ci vorrà tempo, forse due vite, tre, quattro generazioni, ma è questa una buona ragione per non cominciare? Dico sempre che se ognuno di noi fa una piccola cosa, allora tutti insieme ne facciamo una grande.

Quindi se ognuno di noi decide di fare qualcosa…

Tiziano Terzani: Ma cosa vogliamo sperare, che Bush ci salvi dall’orrore del mondo? Forse ci salviamo noi se è vero quello che sento, che la vita è una, che siamo tutti collegati. Il Buddismo ha dato veramente il contributo più grande. Mi piace raccontarlo come fa Thich Nhat Hanh, quando dice che il tavolino che ha davanti è lì perché migliaia di cose hanno contribuito: quel seme, quel giorno che ha piovuto, quella pianta che è diventata albero dentro la foresta, il boscaiolo che va e lo taglia, e poi lo porta in una segheria dove c’è un falegname, e il falegname prende i chiodi, e anche i chiodi vengono da una miniera dove un giorno un altro signore è andato a comprarli. Bastava che il nonno del falegname non fosse nato, e quel tavolo non sarebbe stato lì…
Se la vita è così, allora perché vogliamo eliminarne un pezzo che non ci sta bene?
Se riuscissimo a dire: «Siamo tutti parte di questa cosa», se riuscissimo con questa benedetta coscienza a prendere coscienza di chi siamo, dove siamo, da dove veniamo, dove andiamo, forse… Io per un mese e mezzo sono andato in giro per l’Italia a parlare di queste cose, e la cosa curiosa è che la gente mi sta ad ascoltare. Nelle tante lettere che mi scrivono il tono è sempre questo: «Grazie, lei dice quello che sento». Siccome sono vecchio e non ho più paura di essere preso per pazzo dico le cose che sento… e la gente questa pazzia la riconosce, è la pazzia di tutti, tutti vogliono vivere in pace, chi vuol mandare i propri figli a morire?
Però soltanto quando si vedono i morti altrui come propri, quando si sente la sofferenza sui corpi degli altri come sul proprio, allora si comincia a ragionare. Il cammino di pace può partire da tante considerazioni: secondo me è l’unico cammino oggi. Qualcuno mi ha detto: ah, tu parli sempre della pace, ma in tutta la storia dell’umanità c’è stata sempre la guerra… Io ho risposto, citando Gandhi: ma perché ripetere la vecchia storia e non cominciarne una nuova?
L’essere umano che noi siamo oggi non è allo stadio definitivo, veniamo dalla scimmia, ci sono voluti cinque milioni di anni per diventare così. Questa non è la fine della nostra specie, è una parte della sua storia. Allora perché non approfittare ora di questa bella cosa che è la coscienza per fare un passo in su invece che in giù? Visto che possiamo ancora cambiare, perché non prendiamo la decisione di cambiare in meglio, un po’ più di fratellanza, un po’ meno violenza…
Ma guardatevi davvero bene attorno, guardate la televisione, siamo all’inizio di una svolta orribile di disumanità, di atrocità, di imbarbarimento… Vogliamo continuare in questa catena oppure, come io dico, cogliere questa buona occasione? Tutto il mondo ha visto le torri crollare, e tutto il mondo tutte le sere vede la Palestina, com’è che la gente non si sveglia? Io ci spero ancora: questa è una buona occasione, l’occasione che tutti dicano basta, non si può andare avanti così…

In realtà anche noi siamo complici di tutto ciò.

Tiziano Terzani:Io dico che siamo inconsapevoli complici, non c’è dubbio, siamo corresponsabili. Se non prendiamo coscienza e non diciamo basta….

Come facciamo noi occidentali a vivere questa contraddizione? In realtà tutti virtualmente abbiamo bombardato l’Afghanistan.

Tiziano Terzani: Sono d’accordo, e mi vergogno… Ci sono momenti nella storia in cui vivere normalmente, come se non fosse successo niente, è vergognoso. Bisogna arrestare un attimo la propria vita frenetica e dire no, parlare con gli altri, contarsi. Viviamo ancora in un sistema democratico, possiamo fare qualcosa. Io ho scritto un libro, vado in giro, parlo, ognuno fa il suo. Durante una delle mie presentazioni un signore anziano si è alzato e ha chiesto come avrebbe potuto contribuire. Io gli ho domandato: «Ma lei cosa faceva nella vita?». «Io suonavo». «E allora si rimetta a suonare per la pace, insegni ai giovani a godere della musica, se amano la musica verranno fuori dei pacifisti, forse…».

Cosa direbbe a un bambino?

Tiziano Terzani: Gli parlerei di una cultura di pace. Ieri il mio editore mi ha detto: «Visto che ha un nipotino di due anni e mezzo – a cui è dedicato l’ultimo libro Lettere contro la guerra, ndr – perché non scrive un racconto per lui?»
Io mi rendo conto che sono vissuto tutta la vita senza essere esposto a delle idee di pace, tutta la storia che studiamo parla di massacri, di guerre, Alessandro è Magno (grande) perché ammazza tutti… Sono dovuto arrivare a sessant’anni per scoprire in India che l’imperatore Ashoka, vissuto nel terzo secolo a.C., dopo una battaglia disse: «Che cosa terribile ho fatto!», e cambiò profondamente. Davanti al museo nazionale di Delhi c’è una stele dove si annuncia che Ashoka aveva aperto in Siria due ospedali, uno per gli umani e uno per gli animali. Questo accadde più di duemila anni fa. E noi parliamo tanto di progresso. Un bambino che sa queste cose cresce in modo diverso.
Davvero sono preoccupato… le cose sono complicate, non mi aspetto niente di buono, senonché continuo a credere che questa possa essere ancora una buona occasione. Questi orribili mezzi di comunicazione di massa che oggi mi spaventano sono anche un potente aiuto.

Esiste allora un lato positivo della globalizzazione?

Tiziano Terzani: Certo. Questo mio pellegrinaggio di pace che mi ha portato in diverse città italiane a parlare del mio ultimo libro è cominciato con una letterina, una e-mail che ho mandato a tre o quattro amici dal mio rifugio sull’Himalaya. Questi a loro volta l’hanno mandata ai loro amici e agli amici degli amici, ed è diventata una catena di S. Antonio. A un certo punto ho ricevuto la telefonata di un preside di un liceo di Foggia che mi diceva: «Ho avuto la sua e-mail da una monaca buddista di Katmandu». Vedi la globalizzazione…
In questo viaggio in Italia ho incontrato migliaia di giovani, migliaia di persone, ho fatto a volte tre riunioni al giorno. Se in ciascuno di questi incontri ho acceso anche una sola lampadina, e questa ne ha accesa un’altra e così via… posso essere contento, ho fatto il mio dovere. E ora torno per un po’ alla mia meravigliosa montagna.