L'ultima maledizione di Tutankhamon

L'ultima maledizione di Tutankhamon Qualcuno l’ha definita l’ultima maledizione del Faraone Tutankhamon (XVIII dinastia). Una comunità scientifica – quella della «Egittologia molecolare» – divisa a metà tra chi ci crede e chi non ci crede. Tra chi pensa di aver carpito a Tutankhamon il suo ultimo segreto, quello genetico e chi, dotato di uno scetticismo radicale, pensa che quel segreto semplicemente non sia possibile carpirlo perché il Dna del Faraone si è definitivamente e irrimediabilmente degradato.

La diatriba è ricostruita con alta definizione di dettaglio da Jo Marchant sull’ultimo numero della rivista Nature (http://www.nature.com/news/2011/110427/full/472404a.html). E vale la pena ricostruirla perché ci racconta molto non solo di biologia d’avanguardia applicata alla storia – l’antropologia molecolare, appunto – ma anche della sociologia della scienza tout court. Nella vicenda, sia detto per inciso, sono implicati su posizioni opposte anche due italiani – Albert Zink, del Museo della Mummia e del Ghiaccio di Bolzano, e Franco Rollo, dell’Università di camerino – a dimostrazione che i nostri ricercatori riescono malgrado tutto a svolgere un ruolo di primo piano nell’agone scientifico.

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In breve, la vicenda è questa. La tecnologia della PCR (polymerase chain reaction che frutto a Kerry Mullis il nobel per la chimica) ha reso possibile, verso la metà degli anni ’80, la possibilità di analizzare piccole quantità di Dna. Con effetti dirompenti, tra l’altro, sulle scienze forensi e sulla paleontologia. Basta avere un po’ di materiale organico e la PCR ci regala la possibilità di analizzarlo, grazie a una reazione a catena che duplica il Dna in milioni di copie. Grazie a questa possibilità è possibile analizzare il Dna anche di animali e uomini vissuti migliaia e decina di migliaia di anni fa, soprattutto se ben conservati al freddo. La tecnica ha due limiti: il Dna nel tempo si degrada. E quando i frammenti diventano troppo piccoli, la PCR è incapace di lavorare. Inoltre, data la sua potenza, è esposta al rischio contaminazione: credo di analizzare il Dna di un antico Faraone e mi trovo a studiare il Dna del tecnico delle pulizie del museo.

Quando il Dna antico è relativo a un animale o a un uomo che si è conservato al freddo, per esempio in un ghiacciaio, e/o in un clima secco il processo di degradazione è meno avanzato e il rischio di errore diminuisce di conseguenza. Quando il reperto è stato per secoli e millenni in un ambiente caldo umido, allora la possibilità di errore aumenta enormemente. Ed è qui che si accende la diatriba del Faraone. Perché fin dal’inizio degli anni ’80 al centro dell’attenzione degli «antropologi molecolari» ci sono stati proprio gli antichi re d’Egitto. Perché si tratta di figure universalmente note. E perché se ne conservano le mummie. Molti sono stati, dunque, gli studi sul Dna delle mummie egizie. Alcuni capaci di bucare l’attenzione dei media di tutto il mondo. Come il lavoro pubblicato dal team del noto archeologo Zahi Hawass lo scorso anno su JAMA, una delle più importanti riviste mediche del mondo, dove si annuncia il sequenziamento del Dna addirittura del Faraone Tutankhamon e di molti suoi parenti, con tanto di diagnosi di malattie – dalla tubercolosi alla malaria – in cui sarebbero incorsi. Il faraone si vendica. Perché la comunità degli «Egittologi molecolari» si divide tra chi non ha dubbi sull’affidabilità dei risultati e chi ritiene, invece, che siano del tutto inconsistenti. Franco Rollo, per esempio, pubblica un lavoro nel quale dimostra che nell’ambiente in cui le mummie sono state per 3.300 anni, un Dna si sarebbe degradato molto presto – in meno di 600 anni – e dunque non c’è possibilità alcuna che la PCR ci abbia regalato una sequenza esatta del codice genetico del Faraone.

Ma “quelli che ci credono” non demordono. E vogliono fornire una dimostrazione decisiva che la loro è vera scienza e che la sequenza nucleotidica pubblicata è quella autentica di Tutankhamon. La cosa è possibile perché, intanto, le metodologie di analisi sono migliorate e la “nuova” PCR è in grado di ricostruire l’intero a partire da frammenti tre volte più piccoli di quelli di qualche anno fa. Morale della favola: Hawass sponsorizza un progetto per un nuovo sequenziamento del Dna del Faraone, affidandola a un team che vede come figura leader l’italiano Albert Zink. La vicenda potrebbe avviarsi a conclusione – e certamente, prima o poi lo farà – non fosse che per due perturbazioni per così dire esogene. Da anni l’Egitto proibisce (giustamente) di portare all’estero qualsiasi reperto antico. Ciò vale anche e soprattutto per la mummia di un Faraone o per sue piccole parti, Dna incluso. Morale della favola, per ripetere l’analisi occorre portare le nuove tecnologie in Egitto e allestire lì i laboratori (almeno due, a quanto pare). Con un aggravio di costi notevole.

La seconda perturbazione è che sponsor del progetto è un canale televisivo, Discovery Channel, cosicché gli scettici storcono la bocca: la televisione, dicono, pretende risultati eclatanti. Che garanzie abbiamo che la ricerca non sarà, come dire, forzata?

La vicenda sembra un po’ frivola. Ma – a ben vedere – contiene molti aspetti di carattere generale. Molta attività scientifica è sottoposta a vincoli (come quelli del governo egiziano) e pressioni anche mediatiche (come quella attribuite alla televisione). In questo momento, per esempio, il governo del Canada sta decidendo di procedere a una sperimentazione – quella relativa alla cura proposta da Paolo Zamboni per la sclerosi multipla – fortemente voluta dai mass media e fortemente avversata dalla comunità scientifica. Non è semplice, venirne fuori. Ma finché c’è un dibattito, anche aspro, ma libero e pubblico, prima o poi – come pare si dica adesso – la comunità scientifica trova la quadra.

L'Unità - L'ultima maledizione (molecolare) di Tutankhamon di Pietro Greco