Mummie a Museo Egizio di Torino

Agli egittologi, la “spettacolarizzazione” delle mummie proprio non va giù. Dopo la direttrice dell’Egizio, Eleni Vassilika, stavolta a mettere voce in capitolo nella polemica sul futuro allestimento del museo [si veda anche l'articolo Museo Egizio di Torino secondo Dante Ferretti] (che vorrebbe far tornare i corpi imbalsamati dentro i sarcofagi) è il professor Silvio Curto. L’ex direttore ventennale dell’ente di via Accademia delle Scienze, classe 1919, che fu un’istituzione dell’egittologia, dice di non avere dubbi “su ciò che è meglio fare per le mummie e per noi tutti”.

Secondo lui, “il servizio ottimale che si può rendere ai nostri cari antenati è di toglierle dalla vista, per preservarne la dignità, esattamente come accade oggi nel maggiore museo al mondo, quello del Cairo”. Cambiano i tempi, anche per i tesori sopravvissuti a oltre 4000 mila anni di storia. Secondo la filosofia museologica dominante, infatti – “sostenuta dall’International Council of Museums”, insiste Vassilika –, il sistema di esposizione adottato non va più bene. Non rappresenta più la grandiosa civiltà egizia in tutta la sua complessità. Se con le parole del Ministro della Cultura, Lorenzo Ornaghi, che martedì aveva espresso opinione favorevole a una permanenza dei reperti alla vista del pubblico, sembrava chiusa la querelle, Curto entra a sorpresa a gamba tesa nel dibattito, senza peli sulla lingua.

Da egittologo di lungo corso, non esita ad andare controcorrente anche rispetto ai tanti lettori che da ieri votano il sondaggio sul sito de La Stampa, e che per oltre l’80% dicono di non nasconderle.

«Le superstar non sono le mummie – continua il professore –, non induciamo il pubblico in errore, come se la terra dei Faraoni non avesse niente di meglio da offrire”. Anche la questione del valore educativo rappresentato dai reperti, a lui pare un prestesto forviante: “Quando ero direttore io, ricordo scolaresche che si impressionavano al cospetto dei cadaveri. Qualche ragazzo si sentiva male e si rifugiava nel mio studio».

La Stampa - Letizia Tortello