Non c’è compito più difficile per lo storico che il tracciare il graduale sorgere di una civiltà, perché ovviamente questo processo si compie in epoche in cui mancano o sono estremamente rari i documenti scritti. Al tempo stesso non c’è problema più interessante. […] Una settant’anni fa sarebbe riuscito difficile indicare plausibilmente un oggetto dell’antico Egitto anteriore all’epoca dei costruttori di piramidi, vale a dire alla IV dinastia di Manetone.
Alan Gardiner - La Civiltà Egizia
A dire il vero strumenti paleolitici erano già stati trovati, ma differivano poco o niente da quelli scoperti in Europa e non presentavano caratteri specificamente egizi. Il re Menes e i suoi successori erano noti solo attraverso gli scrittori classici e gli elenchi regali indigeni, e prima di Menes c’era il vuoto assoluto. S’incominciò a colmarlo nel 1894-95, quando Petrie e Quibell, nel compiere scavi presso Nakada nell’Alto Egitto, s’imbatterono in una vasta necropoli dalla quale vennero alla luce degli scheletri rannicchiati sul fianco come dormienti, insieme a vari oggetti, fra i quali vasi decorati con strani disegni geometrici e rozzi contorni di animali e navi. Gli scavatori, sconcertati ritenevano impossibile che queste reliquie fossero egizie e un indizio, in seguito dimostratosi errato, fece pensare a una data dell’oscuro periodo seguito alla VI dinastia. Ma non era ancora trascorso un anno che l’esperto paleontologo J. de Morgan scartò definitivamente l’ipotesi di una “Nuova Razza”. Sondaggi condotti senza metodo in varie località dell’Alto Egitto avevano riportato alla luce sepolcreti e vasellame di tipo molto simile, sempre accompagnati da un gran numero di utensili in selce, mentre mancavano quasi del tutto gli oggetti in metallo. L’egittologo Petrie non tardò a riconoscere il proprio errore e le susseguenti ricerche condotte da lui stesso e dai suoi assistenti, insieme a quelle di altri studiosi di vari paesi, fecero si che lo studio dell’Egitto predinastico diventasse un ramo assai fiorente, benché molto complesso e problematico, della scienza egittologica.
Per una curiosa coincidenza quegli stessi anni erano destinati alle scoperte iniziali di monumenti delle prime tre dinastie, e anche in questa circostanza Petrie e Quibeil furono tra i pionieri. Frattanto i geologi avevano incominciato a sondare nel passato ancor più remoto, anche se le loro indagini non si unirono che molto più tardi a quelle degli studiosi interessati unicamente alle prime vicende della razza umana.
Ormai è possibile esporre la storia dei primordi dell’Egitto in forma sufficientemente continuativa, anche se rimane da colmare una lacuna di tempo piuttosto notevole.
In un periodo remoto, forse un cinquanta milioni d’anni fa, tutta la regione che ora costituisce l’Egitto, come pure larghe porzioni dell’Africa settentrionale e dell’Arabia, furono sommerse dal mare. Fu in questo periodo, noto sotto il nome di Cretaceo, che si depositò l’arenaria nubiana e, sopra di essa, i primi calcari e le prime crete. Dopo un certo spazio di tempo la terra riemerse, solo per essere invasa ancora una volta dal mare avanzante da settentrione. Questo lungo episodio precedette un’epoca durata molti secoli in cui si depositò il calcare eocenico, detto nummolitico dai fossili marini che vi rimasero racchiusi.
Seguì una fase durante la quale si formò la depressione del Mar Rosso, mentre la terra, ripiegandosi sui due lati, dava origine alle alte montagne della penisola del Sinai e del deserto orientale. Solo più tardi, alla fine del Miocene, il Nilo incominciò a scavarsi la valle molto più in basso del piano alluvionale di allora. Il delta non esisteva ancora e al suo posto c’era un golfo del Mediterraneo. Verso la fine del periodo seguente, il Pliocene, s’instaurò un vasto moto di sollevamento, prima del quale però il letto del Nilo era stato quasi colmato dalle ghiaie e dalle sabbie portate dagli affluenti laterali o dalle acque di scolo. In questo cumulo di materiale il Nilo incominciò a erodere il suo letto definitivo e gli stadi successivi rimasero segnati da terrazze degradanti di ghiaia. I cinque strati più alti, durante la formazione dei quali il Pliocene entrò nel Pleistocene, non rivelano traccia di utensili in pietra né d’altre reliquie dell’uomo preistorico, ma nelle due terrazze seguenti vennero alla luce rudimentali asce di selce così simili a quelle dell’ultimo periodo glaciale scoperte in Europa che è invalso l’uso di chiamarle coi nomi di Chelleane e Acheuleane impiegati per la prima volta in Francia. I due strati successivi rivelarono strumenti del tipo detto Levalloasiano. Non molto al di sotto si raggiunge l’attuale livello del fiume che scorre sopra un vasto deposito di melma; a quanto pare, una volta avvenuta l’erosione a grande profondità, un lungo periodo di sedimentazione aveva fatto deviare il corso del fiume.
Gli attenti studi dedicati da Sandford e Arkell a questi movimenti geologici in tutta la lunghezza della valle portano a concludere che molti resti del Paleolitico superiore e del Mesolitico devono esser rimasti sepolti nella melma, e, negli strati più superficiali, le selci lavorate del Paleolitico superiore dette Sebiliane dal villaggio di Sebil nei pressi di Kom Ombo. Già fra il 1870 e l’80 si era incominciato a raccogliere attrezzi paleolitici e neolitici affioranti alla superficie dell’alto deserto, ma occorsero le esplorazioni sistematiche già accennate, insieme ad altre condotte nel Fayyum e nell’oasi di Kharga da Caton Thompson e Gardner, per stabilire gli esatti rapporti tra le varie fasi dell’uomo paleolitico e gli stadi successivi della formazione della valle nilotica. Un abile e cauto geologo ha avanzato l’ipotesi che la cultura Sebiliana sia finita verso l’8ooo a. C., cioè cinquemila anni prima dell’inizio del periodo che soprattutto c’interessa.
Mentre l’Europa era ancora nella morsa dei ghiacci e l’uomo di Neandertal conduceva una grama esistenza cacciando e cercando erbe commestibili, una forte piovosità aveva mantenuto abitabile una parte notevole dell’Africa settentrionale.
Dove ora si stende l’arido deserto vi erano piante e animali a sufficienza per offrire sostentamento alla vita umana. È difficile dire che tipi di uomini fossero quelli che allora si nutrivano di cacciagione e radici, ma certe ossa fossili scoperte a Kaw el-Kebir fanno pensare che non differissero troppo dalla razza che abitò nella stessa regione fino all’epoca dinastica. Mentre il Pleistocene stava per concludersi e il Nilo scavava in profondità restringendo il suo letto, la crescente aridità degli altopiani spingeva via via uomini e bestie verso il fiume, dove l’annuale deposito del ricco limo nilotico favoriva una vita più complessa e sedentaria, dedita all’agricoltura.
Incominciò così quello stadio più evoluto dell’umanità noto come Neolitico. I paleontologi hanno scoperto che i termini di Paleolitico e Neolitico servono egregiamente ai loro scopi, sia che si prenda in considerazione l’Europa, o l’Africa, o altre parti del mondo. Questi termini non si riferiscono a date, ma a stadi dell’evoluzione umana; per esempio certe opere degli aborigeni dell’Australia centrale possono ancor oggi considerarsi appartenenti all’età della Pietra Antica, o Paleolitico, mentre i Maori, che posseggono un grado di cultura notevolmente superiore, meno di due secoli fa non erano ancora usciti dall’Età Neolitica, o della Pietra Nuova. Questi termini derivano dagli strumenti usati, nel primo caso di pietra rozza, nel secondo di pietra levigata, ma la parola Neolitico ha finito col prendere un significato alquanto diverso, o meglio a sottintendere l’assenza di utensili di rame o di qualsiasi uso di questo metallo.
Ora, come assistemmo alla scomparsa della cultura Sebiliana (Paleolitico superiore) sepolta nel limo accumulato dal Nilo, cosi anche lo stadio neolitico, nel significato più ristretto del termine, si è sottratto completamente ai nostri sguardi. L’intervallo di tempo fra il suo inizio e quello della fase Tasiano-Badariana, dalla quale riprenderà il nostro racconto, è stato calcolato a tremila anni e più, durante i quali la valle del Nilo assunse le dimensioni attuali e un clima assai simile a quello odierno, mentre il deserto circostante si faceva sempre meno abitabile, lasciando isolato l’Egitto come una specie di grande oasi in cui una civiltà fortemente individualizzata fu libera di evolvere ininterrottamente i propri caratteri.
Prima di passare a trattare dei più antichi insediamenti umani neolitici nell’Alto Egitto, sarà bene citare alcune località, per lo più situate nella parte settentrionale del paese, dove non si è trovata traccia dell’impiego di metalli. La più estesa è Merimda-Beni Salama, una cinquantina di chilometri a nord-ovest del Cairo, al margine del deserto, dove scavi effettuati da archeologi austriaci e svedesi hanno riportato alla luce i resti di una comunità che abitava in capanne di giunco, in parte affondate sotto il livello del suolo. Il grano veniva immagazzinato in vicini silos fatti di cesti di paglia intonacati d’argilla. Brandelli di stoffa e pesi da fuso indicano che la tessitura era in uso. Gli ornamenti scarseggiano, ma si sono trovati bracciali d’avorio e grani d’osso e di conchiglia. Il vasellame, che come tutte le terraglie predinastiche era fabbricato senza l’uso della ruota da vasaio, ancora sconosciuta, è per lo più rozzo e privo di decorazioni. Si è ritenuto un segno di estrema antichità il fatto che i morti non fossero sepolti in necropoli, ma fra le capanne dei vivi o addirittura all’interno delle abitazioni. Qualche studioso però nega la precedenza cronologica dei reperti di Merimda e li attribuisce a una civiltà ritardata, fiorita quando già gli oggetti in metallo erano divenuti d’uso comune nell’Alto Egitto. A questa opinione si è ribattuto citando l’esempio di un’altra località settentrionale con caratteri molto simili, situata a nord di Birket Qarun (Neolitico A del Faiyum), dove furono eseguiti scavi da Caton Thompson. Questa località si trova così in alto sui livello del lago che attribuirle una data più tarda non si accorda con gli altri strati culturali osservati nel luogo.
Lasciando agli esperti argomenti tanto controversi, volgiamo la nostra attenzione a sud, nel tratto compreso fra Asyut e Akhmim. In questa regione, a Deir Tasa e Badari sulla sponda orientale del Nilo, G. Brunton riportò alla luce necropoli e insediamenti umani attribuiti a un’epoca non molto posteriore a quella di Merimda. Quelle due località non distano fra loro che poche miglia, e i reperti Tasiani sono cosi frammisti a quelli Badariani che se ne è posta in dubbio la distinzione in due stadi diversi. Il Tasiano comunque non si differenzia che per la totale assenza di metallo e per l’aspetto più primitivo del vasellame e degli altri oggetti. L’arte fittile Badariana mostra invece una perfezione artigianale mai più uguagliata nella valle del Nilo; i vasi più belli sono estremamente sottili e presentano una decorazione a linee ondulate in rilievo che più tardi s’incontra solo assai di rado. Esistono vasi marroni e vasi rossi, con linee ondulate e senza, e con la parte superiore e l’interno anneriti, principale caratteristica, questa, dello stadio seguente. La forma più comune è quella a boccia piuttosto schiacciata; orli e manici sono molto rari. Alcuni cucchiai e pettini d’avorio sono straordinariamente raffinati per un periodo così remoto, e delle tre figurine femminili nude ritrovate, almeno due sono più proporzionate delle successive statuine Amratiane. Qualche grano di rame e un punteruolo dello stesso metallo fanno ritenere opportuno sostituire al termine di Neolitico quello di « Calcolitico » (o « Eneolitico ») per designare epoche in cui rame e selce sono impiegati contemporaneamente. Va qui osservato che per gli oggetti rituali si continuò a impiegare la selce quando già da tempo il rame era divenuto d’uso generale per armi e utensili; ancora durante la XII dinastia i falcetti sacrificali di legno sono muniti di denti di selce.
Per lungo tempo fu ritenuta impossibile una datazione indiscussa per i prodotti di questi primi stadi della cultura egizia, ed è probabile che questa incertezza rimanga fino a che non sia stata dimostrata, al di là d’ogni dubbio, la validità e l’utilità del nuovo metodo del radiocarbonio. Nel frattempo si deve a Petrie un metodo empirico che, per quanto precario possa apparire a guardarlo dall’esterno, si è guadagnato l’approvazione pressoché unanime di quanti l’hanno sperimentato. È questo il famoso sistema del « Sequence Dating » . Prendendo come punto di partenza l’evoluzione, secondo lui incontestabile, dei vasi a manici ondulati, per cui questi stessi manici si erano a poco a poco trasformati dalla loro funzione originaria a quella di mere appendici ornamentali, Petrie li classificò in serie assegnando ad ogni stadio successivo un numero S.D.; introdusse quindi nella serie altri tipi di oggetti trovati insieme ai vasi; in ultimo, comparando le posizioni S.D. di tutte le suppellettili trovate in un dato gruppo di tombe, pervenne a stabilire la posizione cronologica relativa di tutto il complesso. Petrie iniziò dal numero 30 la sua classificazione in serie, lasciando i numeri più bassi per eventuali reperti di oggetti appartenenti a periodi anteriori; la data finale cosf trovata, S.D. 77, corrisponde all’inizio della prima dinastia. I resti Badariani non rientrano nella datazione seriale di Petrie, e a questi si sono perciò assegnati i numeri dal 21 al 29, appositamente riservati per simili eventualità. A Nakada furono scoperte tombe di due periodi distinti, denominati dagli studiosi, specie non inglesi, Nakadiano I (S.D. 30-39) e Nakadiano TI (S.D. 40-62). A questi termini tuttavia si preferisce oggi sostituire quelli di Amratiano e Gerzeano, il primo derivante da El-Amra’, presso Abido, dove i due stili non compaiono frammisti, e il secondo da’ per la stessa ragione. Al periodo Amratiano risalgono vari e notevoli tipi di vasi di peculiare fattura, oltre a quello a orlo nero già citato, che è il più comune. Si riteneva un tempo che il colore nero dell’orlo e dell’interno fosse dovuto al fatto che i recipienti venivano capovolti al momento della cottura, mentre la superficie rossa andava addebitata all’ossidazione provocata con l’esposizione all’aria aperta. Da esperimenti eseguiti pare invece dimostrato che l’effetto di annerimento dell’orlo era ottenuto in due tempi; non sorprende pertanto la contemporanea esistenza di oggetti d’argilla lucidata completamente rossi. Caratteristico del periodo Amratiano è lo stile detto « a linee bianche incrociate », consistente in terraglie rosse lucidate e decorate con vernice bianca opaca. I disegni geometrici, spesso molto decorativi, sono ottenuti con fitte linee parallele o formanti una specie di reticolo, non di rado accompagnate o alternate con figure di animali, uomini e piante. Molto più rari sono i vasi neri con decorazioni incise e messe in evidenza con vernice bianca. S’incontrano di frequente anche vasi di pietra, per i quali non venivano impiegate solo le varietà dure come il granito e il basalto, ma anche quelle tenere come la steatite e l’alabastro. Figurine d’argilla o d’avorio rappresentano uomini che portano l’astuccio penico e donne con indumento analogo; molto curiosi sono certi avori, piastre oppure zanne, che raffigurano uomini con barba appuntita e senza alcun accenno di corpo e di arti. Alcune statuine rappresentano donne tatuate, altre steatopigie, francamente repellenti. I pettini a denti lunghi sono sormontati da decorazioni a forma d’uccello o d’altro animale. Tralasciando gli oggetti meno caratteristici, restano da ricordare le terracotte, assai rare; ai grani di rame si aggiungono ora spilli dello stesso metallo, e si hanno anche uno o due esempi d’impiego dell’oro.
Con il periodo Gerzeano sopravviene un grosso mutamento, e anche questa volta la trasformazione più notevole è nell’arte fittile. Al vasellame a linee bianche incrociate si sostituisce una varietà bruno-giallognola decorata in rosso con linee a zigzag o a spirale, oppure con disegni di imbarcazioni a più remi, ciascuna con due tughe e aste per bandiere o stendardi, accompagnate o no da file di fenicotteri, e talvolta da figurine di uomini e animali. In tutta la storia dell’arte fittile non esiste uno stile più inconfondibile o più caratteristico di un particolare periodo e di un dato popoio. A Teracompoli, F. W. Green scoprì una tomba con pitture parietali chiaramente dello stesso tipo’. I vasi a manici ondulati, ai quali Petrie attribuf tanta importanza, incominciano nel periodo Amratiano, numero S.D. 35, ma la maggior parte appartiene al Gerzeano. I recipienti in pietra di questo periodo si valgono di materiali anche più appariscenti come la diorite e il serpentino. Una differenza tra lo stadio Amratiano e il Gerzeano si nota anche nelle teste delle mazze: durante il primo sono foggiate a disco con bordi molto affilati, nel secondo sono a forma di pera, come dimostrano i rispettivi geroglifici T e T. Un’evoluzione di grande importanza si ha nel crescente impiego del rame, non solo per armi e utensili, ma anche per oggetti da toeletta. Resti Badariani, Amratiani e Gerzeani in strati sovrapposti sono stati trovati ad Hammamiya presso Badari, per cui non vi è dubbio che questi termini si riferiscano a periodi cronologici. Gli stessi termini servono però a indicare anche l’area di diffusione. Esempi di tutti e tre gli stadi sono presenti nella Bassa Nubia e anche più a sud, per quanto potrebbe trattarsi di prodotti ritardatari, mentre l’Egitto vero e proprio entrava in fasi più avanzate. Oltre che nella Nubia sono stati trovati resti Badariani nel tratto fra leracompoli a sud e Mahasna a nord di Abido, e Amratiani fra Armant e Naga ed-Deir sulla sponda orientale di fronte a Mahasna. Lo stile Gerzeano ha un’area di diffusione più vasta, essendo il villaggio di Gerza situato a più di trecento chilometri a valle lungo il fiume, nei pressi di Maidum. Sarebbe arrischiato sostenere che a ogni dato periodo corrisponde una completa uniformità di stile in tutto l’Alto Egitto, anche se questa opinione non è contraddetta da notevoli differenze locali. D’altro canto pare evidente qualche ragione di contrapporre la cultura predinastica dell’Alto Egitto a quella del Basso Egitto, rappresentato da Merimda, il Faiyum, Macadi presso il Cairo ed EI-O- mari vicino a Helwan, tanto più che vi si può discernere una differenza di razza, anche se non del tutto confermata dalle testimonianze antropologiche ricavate da Merimda. Tuttavia gli esperti ritengono di poter affermare che la regione era abitata cia una popolazione di statura piuttosto alta e con una capacità cranica assai superiore a quella delle popolazioni meridionali. Questi ultimi erano dolicocefali e possedevano una statura inferiore alla media con caratteristiche spesso negroidi. Comunque si giudichi la popolazione settentrionale, gli abitanti dell’Alto Egitto si possono definire di ceppo essenzialmente africano, carattere sempre conservato malgrado le influenze straniere che di volta in volta imprimevano il loro marchio.
Per tornare agli aspetti cronologici dei tre stadi, è da deplorarsi l’uso tuttora in voga presso certi archeologi di espressioni come « civiltà amratiana », « civiltà gerzeana » e simili che parrebbero sottintendere radicali fratture nell’evoluzione come quelle intervenute fra il periodo egizio-romano e il periodo egizio-islamico. Per quanto notevole possa apparire il mutamento da uno stadio all’altro, si può affermare risolutamente la continuità dell’evoluzione, pur senza negare che ogni importante progresso possa esser stato stimolato da impulsi esterni. Per dimostrare questa continuità addurremo due prove, una generica e l’altra specifica. Durante tutto il periodo le tombe erano costituite da strette fosse di forma ovale o rettangolare, dove i morti giacevano rannicchiati sul fianco sinistro con le ginocchia all’altezza della faccia e con la testa più spesso rivolta a sud che a nord; col defunto venivano sepolti i suoi beni più preziosi, insieme agli utensili e agli attrezzi più rozzi che gli avrebbero permesso di condurre nell’al di là la vita consueta. L’essenziale uniformità di queste disposizioni funerarie non è contraddetta dalle varianti introdotte di tanto in tanto, come per esempio quando le stuoie usate dai Badariani per rivestire le tombe furono sostituite da assi di legno che ne coprivano i lati e la copertura, innovazione che doveva a suo tempo portare al sarcofago dell’età dinastica. Ma, quando già da secoli la mummificazione e l’inumazione in sontuose tombe di pietra era divenuta la regola per i ricchi defunti, si continuava a seppellire i poveri nell’antica posizione rannicchiata.
Una prova ancor più eloquente della continuità culturale è data dalle sottili tavolette di pietra usate per macinare la malachite per il trucco o per protezione magica degli occhi. Tavolette del genere s’incontrano già non solo a Deir Tasa, ma anche a Merimda ancora nelle forme più semplici, rettangolari o ellittiche, e non ancora tagliate nell’ardesia verdastra che diverrà abituale in seguito. Dal periodo Amratiano provengono i primi esemplari ovoidali o a forma di losanga che in seguito dovevano avere un’evoluzione tanto splendida. A queste tavolette se ne affiancano altre dalle forme più svariate e fantasiose, imitanti pesci o tartarughe o quadrupedi, come l’ippopotamo e il cervo. Di particolare interesse sono le tavolette simmetricamente ornate ai due angoli superiori con teste d’uccello, perché questa simmetria costituirà più tardi una delle prove più evidenti di influenze mesopotamiche. Verso la fine del periodo Gerzeano compaiono per la prima volta decorazioni a bassorilievo, che per ora non occupano che una piccola parte della superficie della tavoletta; i disegni sono simbolici e ogni tentativo d’interpretazione si è dimostrato vano. Evidentemente ci troviamo di fronte alle antenate delle tavolette stupendamente scolpite, solo tredici delle quali, alcune in frammenti, sono giunte fino a noi’. La bravura artistica in esse sfoggiata, i rilievi che ne coprono l’intera superficie, e anche le dimensioni delle più grandi, fanno ritenere che fossero oggetti votivi non destinati all’uso. Allorché vennero alla luce i primi esemplari si dubitò addirittura che fossero opera di artefici egizi, ma questi dubbi furono dissipati dalla scoperta (nel 1897) di due altri oggetti consimili nel tempio di leracompoli; di uno di questi, la celebre Tavoletta di Narmer , parleremo in seguito. Si è ora appurato che queste tavolette commemorative appartengono alla fine dell’epoca predinastica e in qualche caso forse al periodo protodinastico; esse presentano infatti un’importante novità costituita da scarsi, ma inconfondibili, esempi di scrittura geroglifica. Fra questi affascinanti esemplari predinastici tardi. Sul recto compaiono sette rettangoli con contrafforti che evidentemente rappresentano città conquistate in cui esseri simbolici si aprono il cammino per mezzo di picche. I geroglifici, per lo più singoli, all’interno dei rettangoli erano certo destinati a rappresentare il nome delle città. E stata avanzata l’ipotesi che negli attaccanti (falco, leone, scorpione, ecc.) si debba riconoscere, sotto aspetti diversi, un unico Capotribù vittorioso “, ma è assai più probabile ch’essi rappresentino province diverse coalizzate in una guerra comune. Da notarsi in modo particolare i due uccelli-stendardo che demoliscono la fortezza nell’angolo sinistro inferiore e che potrebbero rappresentare il futuro nomo di Copto, il quinto dell’Alto Egitto. Sul rovescio si vedono buoi, asini e arieti che camminano pacifici verso destra, ciascuna specie disposta in fila in un registro distinto, mentre in basso sono raffigurati alberi che P. E. Newberry (fieramente avversato da L. Keimer)” suppone siano ulivi; di fianco agli alberi è il monogramma , che Sethe giustamente interpreta come Tjehnu , il paese dei Libi detti Tjehnyu (p. 35). Non occorre molto acume per capire che il bestiame è bottino di guerra e che gli alberi producono il tanto pregiato olio del Tjehnu.
Questa interpretazione sembra convalidata (seppure con un’importante differenza) dalla Tavoletta detta della Caccia, ritrovata pressoché intatta . Essa rappresenta numerosi uomini armati di archi, spiedi, boomerang e lacci che combattono vittoriosamente le fiere del deserto; due leoni sono stati trafitti dalle frecce, uno stambecco è preso al laccio per le corna, altri animali, fra cui uno struzzo e una lepre del deserto, sono in precipitosa fuga. Ma l’interesse principale, oltre a due misteriosi simboli geroglifici, sta nell’acconciatura dei personaggi, barbuti come i nemici vinti della Tavoletta di Narmer con piume nei capelli e code attaccate ai gonnellini. Le code sono un ornamento caratteristico dei faraoni, e non se ne conoscono altri esempi se non sui capitribù libici sconfitti, scolpiti sopra un muro che conduce al tempio del faraone Saburéc (V dinastia) 4; questi capitribù, che portano l’astuccio penico, hanno un curioso ciuff etto di capelli ritto sulla fronte che richiama in modo irresistibile l’« ureo» (cobra) dei faraoni. Potrebbe darsi che i re predinastici del Basso Egitto, o del delta occidentale, fossero in realtà di stirpe libica, e che più tardi i sovrani dei Due Paesi unificati abbiano ereditato da loro la coda e l’ureo, due particolari delle insegne regali davvero sorprendenti. Esistono però altre possibilità, per esempio che i capi libici del tempio di Sahuré imitassero i re egizi o che questi singolari accessori dell’abbigliamento non fossero limitati alla Libia e al Basso Egitto, ma diffusi in altre regioni africane. La parola egizia per indicare i Nubiani, e i guerrieri in genere, ha come determinativo la figura di un uomo con una piuma sul capo I, e più sopra abbiamo richiamato l’attenzione sulle statuine Amratiane dell’Alto Egitto che portano l’astuccio penico. Tutto ciò che pertanto è lecito concludere a proposito dell’abbigliamento è che esso, pur non costituendo necessariamente un distintivo razziale, dimostra l’esistenza di una affinità fra i Libi, gli Egizi e i Nubiani, la quale conferma quanto abbiamo detto delle prime culture della valle del Nilo, da noi definite essenzialmente africane.
La Tavoletta della Caccia tanto più differisce dal frammento del Cairo, detto del paese di Tjehnu, in quanto i Libi, ammesso che siano tali, non vi sono rappresentati come nemici sconfitti, ma come uomini piacevolmente occupati nel diporto della caccia. H. Ranke” assegna a questa tavoletta una data molto antica basandosi sulla libertà della composizione dove i personaggi sono disposti con una certa confusione, contrariamente all’uso invalso più tardi di ordinarli in linee orizzontali, come si vede nel frammento del Cairo e nella Tavoletta di Narmer.
È forse più convincente l’argomento addotto da Ranke per dimostrare l’origine deltica della tavoletta, fondato in parte sui motivi già esposti e in parte sugli stendardi che tre dei cacciatori tengono in mano. Pare ch’essi rappresentino rispettivamente i simboli di «Occidente» «Oriente». Kurt Sethe, studioso sempre geniale, ha trovato ottime prove per dimostrare che in origine essi simboleggiavano i due lati opposti del delta. Ma il significato complessivo della scena di caccia rimane oscuro, essendo impossibile accettare l’audace ipotesi di Ranke, secondo il quale le fiere del delta erano diventate un pericolo per gli abitanti, per cui Occidente e Oriente avevano unito le proprie forze allo scopo di por fine alle loro devastazioni.
L’accenno agli stendardi della Tavoletta della Caccia fa ricordare che non si è ancora trovato una spiegazione per quelli che si vedono sulle navi dei vasi Gerzeani. Newberry li raccolse e cercò di dimostrare che la maggior parte per lo meno costituivano le insegne dei nomi o province del delta. Non c’è dubbio che esse corrispondano alle nostre bandiere nazionali e che indicassero le varie comunità proprietarie delle imbarcazioni. Ma i tentativi d’identificazione del Newberry” sono per lo più errati e ancora ignoriamo a quali particolari località le insegne si riferissero. Molto meno enigmatici sono gli stendardi analoghi riprodotti sopra una delle tavolette decorative in nostro possesso “, la cui parte superiore è occupata da un « possente toro » che trafigge a morte un uomo supino, del tipo sopra definito « libico»; il toro rappresenta il re dell’Alto o del Basso Egitto o di entrambi, dato che proprio questo epiteto è sempre attribuito al monarca regnante. Sotto, indubbiamente stretta intorno alla figura in parte mancante di un prigioniero, è una corda afferrata da mani che sporgono da cinque stendardi del tipo trovato in seguito come insegna dei nomi; il più facilmente riconoscibile è lo stendardo del nomo di Akhmim, nono dell’Alto Egitto. Il significato della tavoletta è reso in tal modo evidente: essa ricorda il massacro o la cattura di un avversario libico o del Basso Egitto da parte di un capotribù dell’Alto Egitto che guida una coalizione di varie province.
Quasi tutte le tavolette con scene guerresche sono consimili, e la cosa più notevole è ch’esse rappresentano in effetti guerre fratricide, mentre non vi è traccia di scontri con invasori provenienti da oriente, tranne forse in un caso, e cioè nella famosa impugnatura di coltello trovata nel Gebel el-Harak e ora al Louvre. Questo oggetto in avorio reca su di un lato una scena di caccia e una battaglia sul lato opposto. Nella parte superiore del primo è ritratto un personaggio in lunga veste ritto tra due leoni, da lui, a quanto pare, addomesticati. I guerrieri sull’altro lato, armati di semplici bastoni, sono simili a quelli delle tavolette, ma sotto di loro sono raffigurate due file di navi separate da corpi di soldati uccisi, e le imbarcazioni della fila superiore hanno la prua e la poppa verticali e gli alberi sormontati da mezzelune tipici dei vascelli mesopotamici di periodo arcaico. L’eroica figura in posa tra i due leoni, secondo uno stile prettamente sumerico, veste costume e turbante di antica divinità babilonese. Si deve a H. Frankfort (le cui ricerche sui rapporti fra l’Egitto e questi popoli stranieri integrano in modo ammirevole quelle condotte da altri studiosi) un’utile tabella dei punti di contatto fra le due civiltà.
Egli conviene che la fase babilonese in cui le somiglianze raggiunsero l’apice è il cosiddetto periodo di Jamdat Nasr, che corrisponde approssimativamente all’inizio della I dinastia egizia. Fu allora che la scrittura geroglifica fece la sua prima comparsa in Egitto, sebbene rintracciabile in Mesopotamia qualche tempo più addietro. Le analogie sono incontestabili e tali da apparire un prodotto naturale del suolo babilonese, ma estraneo allo spirito e alla tradizione dell’Egitto, dal quale in effetti scomparve alcuni secoli dopo. Le grandi tombe di mattoni con cinta ad aggetti e rientranze (p. 369, fig. i8) appartenenti alle prime tre dinastie hanno il loro prototipo in Mesopotamia, e così pure i sigilli cilindrici, la cui comparsa deve esser fissata in una data molto anteriore alla I dinastia. Gli animali compositi, grifoni alati e felini con il collo di serpente, non hanno carattere egizio e s’incontrano quasi esclusivamente nelle tavolette e nelle impugnature di coltello. I colli intrecciati che si vedono nella Tavoletta di Nacrmer, e qualche altro oggetto, sono decisamente mesopotamici nella concezione, ma egizi nell’esecuzione; e così pure i gruppi contrapposti, come le giraffe di un’altra tavoletta e i leoni del coltello di Gebel el-Harak.
Come spiegare storicamente questi influssi mesopotamici? possibile ritenerli semplicemente il seguito di una pressione forse già iniziata nel periodo Amratiano e poi acceleratasi e ingigantita? Non intendiamo qui discutere i precoci rapporti che E. Baumgartel con altri ricercatori trova tra l’arte fittile iranica e quella dei contemporanei periodi predinastici egizi, ma ci sia lecito osservare che solo un’infiltrazione dell’arte mesopotamica in Egitto può spiegare l’introduzione, alle soglie della I dinastia, delle sorprendenti novità architettoniche e artistiche cui abbiamo accennato. Rapporti commerciali indiretti non bastano evidentemente a spiegarle, mentre d’altro canto pare azzardato sostenere l’ipotesi di un’invasione vera e propria. Ammettiamo francamente la nostra ignoranza in materia e non tentiamo di erigerci a giudici fra i sostenitori della via d’accesso dal Mar Rosso attraverso lo Wadi Hammamat e la città di Copto e i fautori dell’itinerario settentrionale dalla Palestina. Ci sia solo permesso di esprimere l’opinione che la provata influenza mesopotamica doveva ampiamente bastare a dar l’avvio a quel rapido progresso che diede origine in Egitto a una civiltà altamente individualizzata, dalle cui forme non si allontanò mai di molto nei secoli seguenti.
Riesaminando il periodo predinastico nel suo complesso, ci troviamo gravemente ostacolati dall’incapacità di determinarne la durata. Fu appunto questa incapacità a spinger Petrie a escogitare il suo sistema del « Sequence Dating ». Ciò non di meno, sia lui che gli altri studiosi, non hanno potuto astenersi dal far congetture in proposito. La durata massima è forse quella proposta dallo stesso Petrie ‘‘, che situò i resti del Faiyum nel 9000 a. C., i Badariani nel 7471, e Méns nel 4326 — abbiamo già esposto i nostri motivi per rifiutare quest’ultima ipotesi. Il grande archeologo G. Reisner cade nell’estremo opposto con un calcolo di mille anni per l’intero periodo predinastico. L’argomento è importante perché solleva il problema del genere di vita possibile nei diversi stadi. Se il deserto circostante il Nilo era ancora bagnato da forti piogge, allora è forse probabile che nel periodo Neolitico, fino alla fase Tasiana, gli abitanti preferissero gli altipiani alla valle del Nilo per coltivare i cereali che riuscivano a produrre. Un altro problema riguarda la valle stessa.
Quanto tempo ci volle per regolare gli effetti dell’inondazione in modo da trasformare una giungla paludosa in fertili campi di grano? Di una cosa si può esser certi, e cioè che resteremmo assai delusi se immaginassimo che nell’età predinastica la valle presentasse più o meno lo stesso aspetto di oggi. Essa era senza dubbio molto più simile all’attuale Alto Nilo sudanese, con tratti paludosi coperti di fitti papiri infestati di coccodrilli, e rifugio di animali selvatici d’ogni specie. Con l’introduzione dei sistemi di drenaggio le terre coltivabili aumentarono e gli stagni retrocedettero fino ai margini del deserto. Anche la fauna poco a poco si spostò verso il Sud, insieme al papiro e al loto. Ma purtroppo non abbiamo a nostra disposizione i mezzi per seguire passo passo questa evoluzione.
Alan Gardiner - La Civiltà Egizia